Forse è sempre successo, ma succede con sempre maggiore frequenza, quando muore qualcuno. Un amico, una persona pubblica. Le commemorazioni non è che non siano sincere, ma appaiono fuori fuoco. Il fuoco dovrebbe essere sul morto, no?
E invece sono quasi sempre i superstiti a spostare la messa a fuoco su se stessi. Ogni memoria pubblica è sempre idealmente intitolata “IO e lui”.
In forma orale, e molto più spesso scritta, l’elogiatore funebre riesce a fare sempre una gran figura. Raccoglie il sospiro delle ultime parole, ne interpreta il senso, rievoca l'amicizia, spiega con un sorriso fra le lacrime la grandezza del defunto, ma sulla base di aneddoti di cui il narratore stesso è protagonista.
Questo è vero egocentrismo: affermare la prevalenza dell’ego sulla morte (degli altri).
Quando scoppia l’applauso alla bara, fuori dalla chiesa, il popolo dei superstiti sposta idealmente la telecamera verso di sé, esprimendo oltre al lutto, un malcelato sollievo per averla scampata anche stavolta.
L’esibizionismo che si nasconde dietro l’applauso all’uscita della bara, o certe commemorazioni funebri nelle quali si celebra soprattutto l'oratore medesimo, sono altrettanti esorcismi. Funziona un po’ come le foto incorniciate alle pareti di certe trattorie, dove il proprietario è ritratto assieme a un attore (un calciatore, un pugile) che guarda ignaro verso l’obiettivo, chiedendosi magari chi è la persona con cui lo stanno fotografando. Magari c’è anche una mano sulla spalla dell’ignaro, a evidenziare una dimestichezza che non c’è.
Più vicini dimostriamo di essere stati al morto e più possiamo idealmente ostentare la nostra valentia di scampati.
Come il torero, che sfida la morte sotto forma di bestia, lasciandosela passare a pochi centimetri dal proprio corpo. Tanto più bravo quanto più vicina mostra di averla fatta passare.
Ma tanto una cornata prima o poi arriva per tutti.
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