Qualora non fossi stata abbastanza eloquente con il titolo in apertura, rincaro la dose: se cercate il film meno burtoniano di Burton, forse dovete rivolgervi proprio a questo film. Il "forse" è inserito a ragion veduta, perché l'impressione è così forte e la realtà talmente palese che la reazione iniziale è diffidare di noi stessi. Io per prima, uscita fuori dalla sala del cinema non ho potuto fare altro che rimanere silente, quasi incredula, forse spiazzata. Sì, è così. E' un Tim Burton con le mani legate, contenutissimo, tuttavia proprio per tale motivo in verità ben più incisivo. Concede pochi fronzoli e più spazio alla storia, abbandona i suoi tratti distintivi praticamente ovunque, tranne che nella paletta cromatica della pellicola che invece a voler essere pignoli paradossalmente non è mai stata così ampia nei suoi precedenti lavori. Ripescando una struttura da cinema classico, in Big Eyes si ha modo di concentrarsi sugli eventi senza troppe distrazioni. Tanta è la cura per la scenografia, che riesce a catapultarci in quel periodo, in quella San Francisco mercato multietnico a cielo aperto dagli interni assolutamente kitsch e dalle bizzarre capigliature: tutti elementi di cui non si fa affatto sfoggio asserviti come sono alla narrazione. Tutto converge verso la vicenda tormentata di Walter e Margaret senza studi o introspezioni di alcun genere. Burton riesce a girare il tutto come fosse una commedia, a tratti nera a tratti seriosa, ma mai sfociante nel dramma. Lavora sui suoi personaggi ma soprattutto sulle loro interpretazioni, funzionali alla storia, come la performance di Christoph Waltz che in più punti risulta caricaturale. Walter è di per sé un personaggio spregevole, viscido, un cattivo tanto geniale quanto buffone nei suoi impeti teatrali frequenti. Margaret, interpretata da una Amy Adams decisamente molto brava, è a sua volta un surrogato di luoghi comuni e stupidità, con quella sua perenne condizione da sottomessa spesso fastidiosa, forse addirittura irrealistica, ma che inserita nel contesto ha ovviamente un suo perché. Loro due sono il centro gravitazionale di questa storia così strutturata, e su di loro cade la resa del film intero, più singolarmente che come coppia in realtà.
L'abilità di Burton, in tal senso, è quella di non cedere alla tentazione del surrealismo, di costruirci sopra scenari grotteschi, sebbene talvolta sembri quasi impossibile farne a meno proprio perché grottesca è di per sé la circostanza di un uomo che riesce a gabbare il mondo intero spacciando per suoi i dipinti della moglie, con il beneplacito se non addirittura la benedizione di quest'ultima.
Il tocco del regista di Ed Wood, altro film biografico, si avverte nel titolo, misura della alienazione di Margaret che sempre più sola ed alienata comincia a vedere le persone con gli stessi occhi dei suoi quadri. Enormi, sproporzionati.
Concludendo, il film non è affatto un brutto lavoro per quanto il finale alla "muoviamoci a finire" metta il segno meno alle aspettative di chi guarda a Burton come al regista del cuore. Infatti posso dire con fermezza che offra ottimi spunti di riflessione, prima ancora che sul ruolo della donna e sul correlato femminismo, soprattutto sul mondo dell'arte, su cosa sia effettivamente Arte e cosa Marketing, e ben più significativamente se si possa fare Arte per Arte o se invece ci sia necessario bisogno di dare spazio alla fama con mezzi subdoli quali la menzogna o la pantomima pur di emergere in un mercato che nolenti rimane capitalistico, deturpato della poesia della diversità.